Caro Giorgio Agamben, di che problemi ti fai?

Lo scorso 23 maggio è uscito su IISF (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) un articolo di Giorgio Agamben dal titolo “Requiem per gli studenti”, dove il filosofo di fama internazionale si lamenta della didattica online. I toni in cui si esprime non lasciano spazio a dubbi sulla portata del fenomeno distopico di cui parla:

“Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale.”

Viviamo in un film dell’orrore per Agamben, dove perdiamo esperienze e veniamo deprivati della vicinanza fisica gli uni degli altri. Il filosofo prosegue additando il problema per lui principale:

“Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita.”

Per “studentato come forma di vita” si intende, da quanto emerge dal testo, tutta una serie di pratiche relative alla vita di uno studente. Ciò non include solo assistere a lezioni e dare esami, ma anche stringere amicizie, andare al bar con le compagne di studio, ritrovarsi in biblio- o in discoteca tra studenti e via dicendo. Insomma, tutta una parte vibrante di vita delle città viene estirpata a forza di decreti ministeriali: sentenze sommarie con l’effetto collaterale di imprigionarci in schermi spettrali.

In chiusura, Agamben lancia il suo j’accuse: gli insegnanti che si adeguano

“sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista”.

Dire che c’è andato giù pesante è un eufemismo. Ma il finale è epico:

“Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.”

Agamben usa il termine latino universitas per riferirsi al significato medievale che avevano le università, ovvero quello di associazioni di studenti. Dato che il tema medievale si addice a questa metaforica chiamata alle armi, ci possiamo immaginare schiere di studenti pronti a riformare le università “dal basso”: squillino le trombe, si prepari la cavalleria, non fate prigionieri!

Scholarii medievali intenti nella millenaria arte del distantiamentum socialis. Fonte: Wikimedia.

Personalmente, credo che Agamben abbia una giusta preoccupazione per quanto riguarda la trasformazione della forma di vita degli studenti, ma tanto nei toni quanto nel metodo di elucidare questa preoccupazione, lascia moltissimo a desiderare.

Parto dalla mia esperienza personale. Ho incominciato a insegnare questo semestre in una università della Germania di medie dimensioni. Come prima esperienza, devo ammettere di essere parecchio soddisfatto, forse anche in contrasto al clima di basse aspettative che aleggiava prima dell’inizio del semestre. Insegno online, come tutti i miei colleghi, e nel mio seminario ci sono una decina di partecipanti.

Ciò che mi ha stupito di più è stata la loro collaborazione e il modo in cui, nonostante le difficoltà, questi ragazzi giovani e giovanissimi si siano rimboccati le maniche per confrontarsi con un testo scritto molto bene (a loro detta), ma a tratti sottile e facilmente mal interpretabile, in un idioma che non è la loro madre lingua.

L’intero personale docente ha incrementato il lavoro da svolgersi sulle piattaforme virtuali in modo “asincrono”, ma molti di noi, tra cui io, non si sono tolti la soddisfazione di incontrare gli studenti settimanalmente in videochat. Problemi di connessione e rumori di sottofondo sono a volte inevitabili, ma tutto sommato ce la stiamo cavando egregiamente.

Lo zelo di alcuni miei colleghi è encomiabile. Non è facile insegnare da casa quando si hanno figli piccoli a carico. Non meno encomiabile è lo zelo delle studentesse e degli studenti, che lavorano duro, hanno persone care che si ammalano e a volte, purtroppo, si ammalano loro stessi. Nonostante ciò, vanno avanti, si tengono informati e non demordono.

Può trattarsi di un’eccezione o di un caso fortuito. Magari per una coincidenza astrale mi sono ritrovato studenti e colleghi modello, o forse, più realisticamente, la mia università e il mio dipartimento (di filosofia) si trovano in una qualche posizione privilegiata. Ma Agamben non ha mai specificato la realtà a cui si riferisce, quindi io mi sento legittimamente bersagliato dalla sua polemica, come colleghi di ogni genere e provenienza.

Essendo uno studente di dottorato, mi trovo precisamente nel ruolo ibrido di studente e docente al contempo. Quindi, Agamben mi starebbe al contempo paragonando ai professori che giurarono fedeltà al fascismo ed esortando a riesumare l’antico splendore delle universitates.

Questo piccolo paradosso non ci deve crucciare troppo. Il motivo è che Agamben non sta facendo seriamente filosofia, ma ha redatto un proclama, detto per essere gentili. Per essere meno gentili, il suo sembra lo sfogo di un attempato professore che non riuscendo ad impostare video e audio di zoom per connettersi col collegio docenti, ha dato in escandescenza al punto di creare un manifesto. Quando si è stressati (o annoiati), c’è chi tira di boxe, chi si dà all’uncinetto e, a quanto pare, chi scrive le filippiche contro le misure adottate dalle università in tempo di pandemia.

Proprio per questo motivo non mi sento offeso: perché l’accusa di Agamben è così assurda che non saprei neanche da dove incominciare per prendermela seriamente. Elenco una serie di considerazioni per far intendere la mia confusione (o quella di Agamben, per quel che conta).

Innanzitutto, l’impossibilità di muoversi liberamente e l’attenersi alle misure di sicurezza riguarda trasversalmente tutta la società e non solo gli studenti. Ciò avviene per il motivo di evitare la propagazione del Covid-19. Anche se la pandemia fosse solo presunta (cosa a cui Agamben allude), il rischio sembra giustificare da molti punti di vista queste misure che ricordo essere temporanee. In altre parole, non sapremo quanto a lungo dureranno e che tipologia di trasformazioni porteranno con sé. Si ritornerà tranquillamente all’età dell’oro delle universitates dei clerici vangantes? Si sprofonderà direttamente nella dittatura del Grande Fratello? La nostra vita diventerà una serie di episodi di Black Mirror? Come fa Agamben a conoscere il risultato anzitempo non lo so, a meno che al posto di essere un filosofo, egli si consideri un astrologo.

Una rappresentazione realistica di quando mi sono sentito osservato dai miei studenti per la prima volta in videochat. Fonte: Pan Macmillan.

Secondo: la tecnologia è ciò che, tra le altre cose, permette ai filosofi (astrologi?) come Agamben di raggiungere la fama che hanno ancora in vita, e non di essere riscoperti qualche decennio dopo una vita finita in miseria. Quindi, col rischio di scadere nella banalità da sermone domenicale, la tecnologia ha lati negativi ma anche positivi (sono in dubbio su come categorizzare la fama di Agamben). In particolare, la didattica online mi permette di avere più controllo sullo svolgimento delle mie lezioni: ogni studente viene interpellato direttamente ed è più difficile dimenticarsi di qualcuno o lasciare che altri scompaiano negli ultimi banchi della classe. Di fronte allo schermo di un laptop, tutte e tutti sono protagonisti. Certo, io non mi posso muovere liberamente come avrei altrimenti potuto in un’aula di università e non posso usare con la stessa facilità la lavagna, ma, in un modo o nell’altro, questo mi rende più simile ai miei studenti, il che non è necessariamente un male.

Terzo: perché l’insegnate che si adatta a insegnare con i potenti mezzi online, svecchiando (forzatamente) l’università, deve essere paragonato a chi si è sottomesso ad un’ideologia di partito? L’associazione è del tutto gratuita, ma anche se non lo fosse, chi può fare di tutta l’erba un fascio accusando en masse i tantissimi professori che nel 1931 si sono sottomessi al regime fascista senza contestualizzazione storica? È molto facile col senno di poi, ma altrettanto facile è sparare qualche accusa a caso che in un modo o nell’altro si realizzerà in base all’interpretazione dei fatti storici.

Ciò, per nulla togliere ai quindici professori ribelli sotto il fascismo, ma anche lì, siamo certi che fossero motivati dalle ragioni per cui noi oggi troviamo il fascismo ripugnante? Possiamo immaginarci, ad esempio, che segretamente coltivassero altri credi ideologici altrettanto ripugnanti, e che solo per coincidenza non abbiano ceduto al fascismo. Se il principio di nulla poena sine culpa regge, dovrei astenermi da tali speculazioni: in assenza di evidenza contraria, possiamo considerare i quindici professori come genuini oppositori del fascismo. Ma altrettanto dovremmo astenerci da strumentalizzare la loro esperienza storica per dubbi scopi retorici.

Quarto: l’appello agli studenti che cosa vuol dire? Vogliamo che vìolino le misure anti-pandemiche e fondino nuove Alma Mater qui e là in giro per il mondo? Vogliamo che lo facciano online con il rischio di perpetuare la “barbarie tecnologica”? E invece avere un po’ di riguardo per quelli che si sono fatti settimane in ospedale o che hanno perso i propri cari in questo drammatico momento? Sì, caro professor Agamben, anche gli studenti ventenni finiscono in ospedale per il “presunto” Covid-19.

Agamben lamenta che un ritorno alle università per come le abbiamo conosciute di recente non sarebbe comunque auspicabile, vista l’eccessiva specializzazione. Qui però il professore risulta non essere del tutto aggiornato sugli sforzi di tantissimi atenei nel promuovere curricula interdisciplinari (dubbi, a mio parere – segui questo link per un approfondimento in inglese) e dimentica la generale tendenza nella società allargata a svalutare i saperi umanistici, che per tradizione sono più generalisti.

Perché tuttavia fermarsi qua nel trovare pecche al sistema che abbiamo momentaneamente abbandonato? Quale “esperienza dei sensi” e quale “sguardo” avranno mai perso i circa duecento studenti stipati settimanalmente nell’aula 211 della Statale di Milano? (Sono stato tra queste eroiche ed eroici compagni per un anno di triennale). Le fragranze dei sudori d’ascella del vicino schiacciato come te sullo scalone di accesso? L’irrequietezza che ti assale quando per una frazione di secondo perdi la slide e mannaggialapeppa non puoi far niente per chiedere al prof di tornare indietro perché nessuno ti sente e men che meno ti vede in quell’orda di carne umana formato sardine in scatola? Ciao che sguardo! È un miracolo se vedi la prof a distanza di trenta metri, perché spesso è solo un’onnipresente voce al microfono che il Grande Fratello ci fa un baffo.

Scenari simili erano all’ordine del giorno in Statale. Fonte: la Repubblica.

Di nuovo, la preoccupazione di Agamben riguardo la vita universitaria allargata non è del tutto infondata, ma se io posso non sentirmi offeso dalle sue accuse, le prendo comunque come un’offesa ai miei studenti e al loro duro lavoro. È facile filosofare per immagini, dando un’idea del tutto falsata di cosa sia fare seriamente filosofia, contribuendo, peraltro, alla sua svalorizzazione nell’immaginario comune. Un’altra cosa è trovarsi nel bel mezzo di una pandemia a doversi inventare un corso universitario.

Per quanto conosca Agamben solo per fama e non abbia altrimenti letto alcunché della sua produzione filosofica, non posso che relativizzare le mie critiche a questo suo singolo articolo, il che non le rende meno cogenti, ma certamente assai più limitate nel raggio d’azione (direi praticamente azzerate nei confronti della sua personalità filosofica).

Detto ciò, invito più generalmente i critici della didattica online e delle regole adottate dalle università in questo periodo a parlare con i diretti interessati e a informarsi, contestualizzando, sui loro pareri invece di costruire massimi sistemi su vaghi presupposti di contestabile valore. Forse, allora, si potrà scoprire che risorsa inestimabile siano molti studenti (e molti docenti) e quanto il loro (nostro) lavoro debba essere valorizzato nella società e nella politica, anche in tempo di “presunta” pandemia.

Damiano Ranzenigo

Crediti immagine di copertina: foto modificata dell’università di Cambridge, immaginata in rovina. Fonte: Installing (Social) Order.

Pubblicato da letterstoishka

Blogging philosophy student. From my busy-bee mode to the daydreaming sloth mode there’s no in-between. Someone mistakes me for a wasp.

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